Eric Buzzetti: Xenophon the Socratic Prince. The Argument of the Anabasis of Cyrus (= Recovering Political Philosophy), Basingstoke: Palgrave Macmillan 2014, XVII + 337 S., ISBN 978-1-137-33330-8, GBP 70,00
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Il volume si apre con un'ampia introduzione (1-36) che presenta lo posizione della critica senofontea (disinteressata, a parere dell'autore, agli aspetti filosofici) e illustra l'impostazione del lavoro: si intende dimostrare che l'Anabasi è un'opera di filosofia politica, dedicata al valore dell'educazione socratica. Il problema che essa affronta è se un governante possa coniugare "the noble and the good" (non viene mai usata la terminologia originale). A questo scopo, vengono presentati tre modelli di capo: Ciro, "the Godlike king"; Clearco, "the pious king"; Senofonte, "the Socratic king".
Ispirandosi a Leo Strauss, Buzzetti propone una interpretazione esoterica dell'Anabasi: il testo non va inteso alla lettera, perché l'uso dell'ironia e di raffinate tecniche letterarie (allusioni, ripetizioni, omissioni, collocazioni "al centro", ridenominazioni, leghetai phrases etc.) fanno sì che il vero significato dell'opera risieda altrove e che solo un pubblico selezionato potesse comprenderla.
Il I capitolo (39-73) discute il titolo dell'opera, che è ritenuto originale (così come la divisione in sette libri), e il ritratto di Ciro, ridimensionandone il carattere encomiastico e sottolineandone la congruenza con quello delle Elleniche. La domanda che viene posta è se "nobile e buono" possano essere coniugati nel governo del "re divino": la conclusione è che Ciro, pur ricco di qualità personali, era privo di virtù fondamentali come eusebeia, phronesis, sophia, sophrosyne e incline all'uso dell'inganno e dell'intimidazione, e quindi inadeguato a realizzare la giustizia nel mondo. Il centro del capitolo è l'interpretazione del mito di Apollo e Marsia, che contendono peri sophias: esso evocherebbe, attraverso la figura del Sileno, Socrate, mentre Mida, che giudica tra Marsia (Socrate) e Apollo (Ciro), non sarebbe altri che Senofonte. La vicenda mitica servirebbe dunque a Senofonte per alludere ai suoi rapporti con Socrate e alla sua decisione di abbandonarlo per seguire Ciro. Tale interpretazione - che muove da uno pseudo-problema: perché Senofonte, che di solito non indulge a descrizioni, si comporta diversamente con il sito di Celene? - resta tuttavia del tutto congetturale.
Il II capitolo (77-108) considera le capacità di governo di Clearco, un capo autorevole ed efficiente, stimato dai sottoposti, che ripone le sue speranze nella divinità e nell'osservanza dei patti giurati. La sua esperienza dimostra però che esercitare giustizia e pietà non necessariamente assicura il successo e il giusto contemperamento fra "nobile e buono". In un contesto argomentativo non chiarissimo, sembra difficile pronunciarsi su alcune interpretazioni, come quella che vede nell'ateniese Teopompo (l'"inviato da Dio"), che appare una sola volta nell'opera e ha le caratteristiche del filosofo, un alter ego di Senofonte, o come quella che, appoggiandosi sulle varianti testuali, sostiene che Senofonte, usando la toponomastica "in the service of philosophy", rinomina il fiume Zabaton (II, 5, 1), cioè "il fiume facilmente guadabile", ora Zapatan ("il fiume dell'inganno") ora Zaten (III, 3, 6: "il fiume della follia"), per alludere all'errore di giudizio di Clearco che lo porta alla morte. Si tratta, a mio parere, solo di suggestioni, non sufficientemente provate.
Con il III capitolo si affronta il tema del "re socratico", che si prolunga fino al VII capitolo, prendendo in esame una serie di virtù di comando: la pietà verso gli dei (111-147), il coraggio (149-180), la giustizia (181-220), la gratitudine (221-257), la benevolenza verso i soldati (259-294). In tutti i casi, queste virtù, pur necessarie, non appaiono sufficienti ad assicurare al buon capo il necessario contemperamento fra "nobile e buono".
Confesso di aver trovato spesso l'argomentazione, in questi capitoli, poco perspicua, riscontrando anche qualche problema di metodo. Nel III capitolo si afferma che Senofonte lasciò Atene per seguire Ciro in un contesto di grande animosità contro i Socratici: lo dimostrerebbe il discorso di Trasibulo dopo la restaurazione della democrazia (Xen. Hell. II, 4, 40-42), che trasuda odio contro gli oligarchici e chiama i Socratici "cani che abbaiano" da zittire (113 ss.; cfr. 308). In realtà, nel suo discorso Trasibulo si rivolge a "quelli della città", cioè ai Tremila, e non ai Socratici, ed è agli Spartani che egli attribuisce l'intenzione di consegnare i Tremila ai democratici come "cani alla catena". Quindi non solo la testimonianza è fraintesa sul piano storico, ma ne viene ignorata la parte che fa riferimento al giuramento di "dimenticare il male subito", così come viene ignorato il giudizio dello stesso Senofonte, il quale ammette espressamente che il popolo rispettò l'amnistia. Sempre nel III capitolo, che il sogno di Senofonte sulla casa di suo padre colpita dal fulmine (III, 1, 11) alluda a Socrate e alla sede del suo insegnamento può essere suggestivo, ma resta indimostrabile; né mi convince che lo scontro di Senofonte con Apollonide Beota (III, 1, 26-32) rappresenti lo scontro di Senofonte con Apollo (con gli argomenti che Apollonide significa il "figlio di Apollo" che e parla in dialetto beotico, come accadeva "at Delphi or in its vicinity": 127), cioè il rifiuto di Senofonte di privilegiare la pietà religiosa rispetto alle armi secolari.
La conclusione (295-300) ribadisce il fallimento dei tre modelli di buon governante, compreso quello del re socratico: l'opera si rivelerebbe così una critica della vita politica, in cui coniugare "the noble and the good" risulta difficile, e un'introduzione alla filosofia. Seguono due appendici: la prima sul soprannome adottato da Senofonte, Temistogene Siracusano (301-312), la seconda sul carattere originale della divisione in libri e capitoli (313-315). La bibliografia è quasi esclusivamente in inglese, con l'aggiunta del commento di Lendle in tedesco e di qualche titolo in francese (ma nel capitolo sulla gratitudine non si trova una sola citazione di V. Azoulay, Xenophon et les grâces du pouvoir, 2004).
Pur accogliendo volentieri l'invito dell'autore ad aprire la mente per accogliere ipotesi nuove, senza le quali in effetti non vi sarebbe avanzamento delle conoscenze, l'interpretazione in senso esoterico dell'Anabasi qui proposta mi sembra problematica, benché non manchino nel libro spunti stimolanti: trovo infatti difficile ammettere che, a tanta distanza cronologica e culturale, sia possibile cogliere correttamente allusioni e parodie poco trasparenti per gli stessi contemporanei. Di conseguenza, il rischio di travisamenti mi sembra elevato e, soprattutto, viene meno la possibilità di una rigorosa dimostrazione.
Chiudo con un'ultima osservazione di carattere metodologico. Buzzetti, convinto che alcune questioni testuali vadano risolte alla luce del messaggio esoterico dell'autore, discute una serie di emendazioni. Ora, che (per esempio) Senofonte scriva "arcieri sciti" intendendo però "arcieri cretesi" (III, 4, 15), e che deformi deliberatamente antroponimi e toponimi a scopo allusivo, suscita qualche perplessità. Ma, in ogni caso, non credo possibile discutere di emendazioni e di critica del testo sulla base di una traduzione inglese e di translitterazioni.
Cinzia Bearzot